I gamberi sono uno degli alimenti ittici più apprezzati dagli italiani, ma la quantità di crostacei disponibile sul mercato nazionale proveniente dalla nostra produzione è da anni in stato di forte crisi. L’Italia già nel 2010 risultava al terzo posto tra i paesi europei importatori di gamberi, con un volume di 63.247 tonnellate, di cui il 2,6% rappresentato da prodotto fresco e il restante 97,4% da surgelato.
La ridotta produzione nazionale è imputabile soprattutto alla concorrenza dei prodotti importati dall’estero, che già nel 2014 occupavano una fetta del mercato nostrano pari a oltre 400 milioni di euro. Allo stato attuale, i crostacei vengono pescati, allevati, spesso precotti e congelati, a migliaia di chilometri di distanza, rendendo molto difficile fare i necessari controlli di qualità compatibili con i nostri standard di sicurezza, e portando in Italia alimenti a volte anche avariati o trattati con sostanze chimiche che ne mantengano la colorazione non consentiti da noi, e sui costi dei quali incide molto il lungo viaggio internazionale.
Liza Boschin, inviata della trasmissione RAI Presa Diretta, è stata in Bangladesh e in Thailandia per scoprire come arrivino sulle nostre tavole i gamberi d’importazione, provenienti principalmente dal Sud America e dal Sud Est Asiatico, di cui i metodi d’allevamento sono il più delle volte sconosciuti.
Liza Boschin ha visitato una delle zone più remote del Bangladesh, che si raggiunge dopo più di dodici ore di macchina dalla capitale, Dacca. Si tratta di un’area che in passato era occupata da diverse coltivazioni, dai pascoli, dalle foreste e dalle risaie, ma che è, oggi, un unico grande lago salato in cui donne e bambini lavorano per crescere i crostacei, completamente destinati al mercato straniero.
Creati abbattendo le dighe che proteggevano l’interno dalle mareggiate nel periodo dei monsoni, questi bacini d’acqua salata distruggono l’ecosistema locale, bruciando le poche coltivazioni rimaste, facendo sparire i pascoli e intaccando addirittura le abitazioni degli abitanti del posto. Questo perché l’acqua salata utilizzata per realizzare i laghi artificiali, rende sterile la terra sottostante, per cui se un contadino vuole riconvertire all’agricoltura o al pascolo il suo terreno, non può più farlo.
Il viaggio della giornalista è proseguito verso la Thailandia, seguendo a ritroso le orme del trash fish, il pesce immondizia, ossia tutto quel pesce che non può essere venduto al mercato ma viene acquistato dai produttori di farina di pesce per creare il mangime necessario ad allevare i gamberi.
L’Europa è il più grosso importatore di farina di pesce dalla Thailandia, usata anche come mangime per ingrassare i nostri polli e maiali negli allevamenti intensivi. Inoltre, tra le bancarelle dei mercati thailandesi e asiatici in genere, ricolme di “trash fish”, è possibile trovare anche diversi pesci tropicali della barriera corallina, portati a riva dai pescatori tramite la pesca a strascico, molto praticata in Asia, che distrugge i fondali decimando plancton e coralli.
È questo il vero costo di un cocktail di gamberi: la nostra produzione nazionale arranca, mentre a migliaia di chilometri da noi l’ambiente viene massacrato per soddisfare la richiesta del mercato, e i danni all’ecosistema, irreversibili, non hanno prezzo che li risarcisca. Riflettiamoci su. E’ bene che i consumatori di gamberetti e non solo, sappiano. Anche una spesa consapevole può contribuire a preservare l’ambiente.