“Non c’è nessuna supremazia di un genere verso l’altro… Dire molto in poco spazio non è soltanto una questione di sintesi: ma di stile, di respiro…”.
Fabrizio Ansaldo, romano, ha ricevuto premi di poesia da nord a sud d’Italia. Ha curato rassegne culturali e letture drammatizzate dai racconti di noti scrittori statunitensi. Scrive e dirige i propri testi teatrali. L’ultimo spettacolo “SoleDonne” (2019) ha vinto il Premio Alessandro Fersen per la regia. Cuori nella ghiacciaia, edizioni Youcanprint, è la sua opera prima: una raccolta di racconti, brevi storie dal carattere immaginifico. Si narra di incontri, emozioni, accadimenti narrati con uno stile asciutto e poetico insieme. Un excursus intrigante nell’animo umano.
Questa prima opera narrativa è una raccolta di racconti. Perché ha scelto questo genere che nel nostro paese, al contrario dei paesi anglosassoni, non è visto di buon occhio da editori e lettori, che preferiscono per la maggior parte il romanzo?
Sono decenni che va avanti questa tiritera ossessiva che i racconti non vendono e non vengono letti. Del resto, i nostri editori hanno sempre remato contro nel diffondere la “storia unica” in quanto più facile da spiegare, promuovere e vendere. La scarsa tendenza del nostro paese a leggere ha fatto il resto (anche se fosse il contrario, le colpe vanno comunque addebitate a chi detiene il potere della cultura). Non c’è nessuna supremazia di un genere verso l’altro. Trovo tutto questo volgare e avvilente perché le storie brevi sono la vera natura del racconto, la narrazione pura, dove la capacità di evocare e raccontare non richiede artifici come il romanzo. Il racconto, che ha origine nella trasmissione orale di un tempo, si mantiene ad esso fedele pur restando nel gioco della verità-finzione, che ogni opera d’ingegno letterario ha nel suo DNA. I miei racconti si risolvono da sé per durata, forma e contenuto. È il racconto a dirmi di essere ultimato: allora, io ne prendo atto e passo a un altro. Dire molto in poco spazio non è soltanto una questione di sintesi, ma di stile, di respiro, di voluta reticenza.
Molti grandi scrittori si sono cimentati nel racconto breve, basti pensare a Hemingway, Sepúlveda e Calvino, che affermavano di preferire questo genere in quanto consente una narrazione sintetica, o a Cechov, che scriveva anche opere teatrali. L’essere anche un drammaturgo quanto ha condizionato il suo stile di narrazione?
Teatro e narrativa hanno le loro convenzioni, regole. Non direi che l’una abbia avuto influenza sull’altra. In entrambe, immetto il mio mondo e la mia visione di esso in modo differente. Nel racconto si è più liberi, come nel cinema. Nel teatro invece le convenzioni spingono a un’espressione che deve farsi corpo per gridare, rompere gli schemi e le barriere, denunciare, e questo porta a una catarsi di un’altra parte di me stesso.
Da dove trae lo spunto per le sue storie, dalla cronaca o dall’immaginazione?
La parte autobiografica è imprescindibile e onnipresente per delineare i personaggi di una storia. Conosciamo i nostri personaggi per quanto conosciamo noi stessi e gli altri. Partire da una fonte esterna può incontrare ostacoli e non risultare veritiera: spesso molte opere che traggono dalla sola realtà sono sconnesse e si muovono zoppicando. E il lettore attento se ne dà conto.
Esiste l’ispirazione (concetto di epifania joyciana)?
Esiste il lavoro metodico, attento, scrupoloso e continuo. L'”ispirazione”, così detta, trae frutto da tutto questo. L’”ispirazione” così metafisica, come noi la intendiamo, non esiste. Nello specifico, invece, il cogliere una “manifestazione spirituale” o, come io dico, “la verità” da un gesto, una immagine, una parola, si manifesta nella misura e nel modo di come e quanto siamo dentro a quella dimensione immateriale. Se colgo qualcosa è perché io mi sono messo in condizione di riceverlo, nulla accade nella distrazione e nella disinvoltura. Tutto invece accade quando si raggiunge uno stato dell’animo in sintonia con la natura tutta che ci circonda: persone, oggetti, animali, piazze, etc. Quando dirigo gli attori, ad esempio, mi riesce di cogliere da un loro gesto, movimento, parola, sguardo, qualcosa che si rivela poi di profonda significanza. Dietro quel “segno” si cela altro, ma non c’è casualità, perché io sono già immerso nella spiritualità del luogo e del lavoro, del momento. Nulla nasce dal caso e tutto ha una origine ed un senso, materiale o immateriale.
Ha avuto miti di riferimento letterari?
Ho amato alcuni scrittori più di quanto abbia amato persone nella vita. Le persone si proteggono, gli artisti al contrario svelano il loro cuore e per questo più facili da amare. La lista può essere più lunga, ma basti Hemingway, Carver, Paley, Cechov, Calvino, Bukowski, Tanizaki, Tennesse Williams, Miller, etc.
Ha pensato alla possibile trasposizione teatrale dei suoi racconti?
Al momento, no. Ci penserò, o magari ci penserà qualcun altro.
Il libro (o i libri) che porterebbe con sé in un’isola deserta?
I 49 RACCONTI di Hemingway. È un libro che ha influenzato, contagiato, scrittori fino alla fine del ‘900 (valido ancora oggi), drammaturghi e sceneggiatori di cinema e teatro inclusi. Mi faccio bastare questo, a me piace rileggere. Nel caso invece che l’isola si scoprisse affollata, allora, avrei bisogno di molti più libri…
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