“È l’interesse per l’uomo che porta molti medici predisposti per la scrittura ad esprimerlo attraverso la narrativa”.
Medico, specialista in Psichiatria, già docente di Psichiatria, Psicoterapia psicodinamica e Responsabile del Day Hospital psichiatrico del Policlinico Umberto I, esperta in Arteterapia, e molto altro, Maria Antonietta Coccanari è anche scrittrice e giornalista. Vive a Tivoli, dove la incontriamo nella splendida casa con vista sul tempio della Sibilla di Villa Gregoriana, patrimonio Unesco.
Nella tua vita, oltre una professione impegnativa come quella di psichiatra, c’è un’attività pressoché costante di scrittrice e di assidua lettrice. La scrittura è una passione…innata?
In qualche modo sì, scrivo da sempre, sin dalla prima infanzia. L’Osservatore Romano pubblicò una mia poesia quando avevo sette anni.
Tra i tuoi autori preferiti?
È difficile fare una scelta. Proust è al primo posto, Dostoevskij al secondo, e poi… infiniti altri.
C’è un qualche legame casuale tra medicina e letteratura?
Gli esempi di grandi scrittori che sono stati anche medici sono svariati. Penso a Anton Cechov, Arthur Conan Doyle, Joseph Cronin, Bulgacov, Celine, tanto per citarne alcuni. Non credo che si tratti di pura casualità, è un fatto proprio dovuto all’interesse per la humanitas che accomuna medicina e letteratura. È l’interesse per l’Uomo, l’atteggiamento alla comprensione profonda dell’altro, che porta molti medici, predisposti alla scrittura, ad esprimerlo attraverso la narrativa.
Secondo la tua esperienza di arte terapeuta presso il Day Hospital dell’Università la Sapienza, l’arte può essere considerata un valido metodo di cura?
Nel Trattamento Integrato, farmaci associati a psicoterapie individuali e di gruppo, ho sempre curato molto, e con ottimi risultati, come importante fattore co-terapeutico, l’Arteterapia, in particolare la scrittura, il cinema e i giochi preliminari dello psicodramma.
La letteratura, ma anche il teatro, stimolano al confronto con altre realtà possibili, ma portano anche a “raccontarsi”, schermati e protetti da un’altra dimensione cui ci si possa immergere. È così anche per il cinema?
Sicuramente è una cosa che accomuna tutte le arti, di cui il cinema può essere considerato una forma che ne trascende la somma. Tuttavia nei Gruppi di Arteterapia la protezione di cui parli è superata dalla possibilità di “vedere” attraverso le identificazioni ciò che prima non era evidente alla coscienza, cosa che aiuta il paziente a muoversi verso le tappe di ”insight e coping”, sino alla resilienza.
Tra i tuoi scritti più interessanti, oltre a vari saggi di carattere scientifico, c’è un romanzo: “Pater belladonnae”, che ti accingi a ripubblicare, e l’ultimo “Se apro gli occhi non sono più qui”, sulla tua esperienza di arte terapeuta. Ci vuoi parlare della tua attività di narratrice?
Il secondo che citi è un saggio, è il resoconto del Convegno sulla filmtherapy che organizzai alla Sapienza con Sergio Castellitto e il critico Mario Sesti. La mia parte di “narratrice” è il mio Vero Sé, per dirla come Donald Winnicott. Ho scritto tre romanzi e molti racconti. E ultimamente anche una sceneggiatura per un film brillante.
Nel tuo futuro ti occuperai ancora di arteterapia, o ti dedicherai ad altri progetti?
Mi dedicherò all’arte come terapia di… me stessa. M’immergerò nella scrittura, e inizierò anche un corso d’Interior Design, che ho dovuto congelare per via dei vari decreti Covid.
Come commenteresti la frase della scrittrice Flannery O’Connor: “La narrativa riguarda tutto ciò che è umano, e noi siamo fatti di polvere. Dunque se disdegnate di impolverarvi, non dovreste tentare di scrivere di narrativa”.
Mi auguro di aver dimostrato con i miei romanzi questa verità. Per assonanza, colgo l’occasione per ricordare che una delle esperienze più emozionanti del mio percorso lavorativo, fu la proposta ai miei pazienti dell’opera: “Chiedi alla polvere”, che pur ambientata all’epoca del Proibizionismo, resta un magnifico attualissimo ritratto della sofferenza nella società multietnica, che porta al centro la dimensione della vergogna. Fu affrontata tre volte, come romanzo di John Fante, come film, e come spunto per un gioco preliminare allo psicodramma. Dai pazienti emersero contenuti importanti. È stata veramente un’esperienza indimenticabile.