“Senza innovazione non si può mantenere la tradizione” .
È a capo di un’azienda storica che nasce ben più di 500 anni fa, fiore all’occhiello tra le eccellenze dell’agroalimentare italiano, è Pina Amarelli, Cavaliere del Lavoro, un’imprenditrice lungimirante che riesce a coniugare cultura e rispetto del territorio, pur mantenendo un occhio vigile sugli sviluppi di un mercato, nazionale e internazionale, sempre più complesso, che la globalizzazione ha spesso penalizzato piuttosto che agevolato. La liquirizia prodotta da questa azienda è considerata da molti la migliore al mondo.
La Amarelli è un’azienda che ha un legame profondo con il territorio. Come si è evoluto nel tempo questo rapporto?
Il legame della Amarelli con il territorio risale all’inizio dell’anno 1000, quando il progenitore della famiglia arriva dal Nord con i Normanni, e decide di stabilirsi nella Piana di Sibari. I rapporti con la popolazione e il territorio diventano molto più forti nella seconda metà del 1400 con l’avvento della monarchia aragonese, che concede alla famiglia un feudo ancora più importante. È in quel periodo che si cominciano ad estrarre dal terreno i rami della liquirizia, pianta oramai sperimentata per vari utilizzi e cure, per essere commercializzati. Nel 1731 viene realizzato un “concio” per ottenere dei tronchetti, ed estrarre il succo dalle radici. Malgrado le guerre e i momenti di crisi che si succedono nel tempo, la popolazione e il territorio usufruiscono benefici da questa attività che comporta una richiesta maggiore di mano d’opera. Si accresce di conseguenza anche un grande senso di appartenenza dei collaboratori ma anche degli abitanti del luogo: oggi Amarelli vuol dire liquirizia, inevitabilmente legata al territorio di Rossano Calabro.
È possibile innovare un’azienda mantenendone intatta la tradizione?
Senza innovazione non si può mantenere la tradizione. È necessario custodire saldi i valori e i principi fondanti, ma bisogna introdurre continuamente innovazione nella tecnologia e nel marketing per essere competitivi, ma con radici, reali e metaforiche, sempre salde e forti.
Molti imprenditori dell’agroalimentare lamentano la carenza di personale. Succede anche per voi? E che rapporti avete con i lavoratori che provengono dall’estero (ma anche italiani), soprattutto in termini di formazione?
In Calabria si trova ancora personale e abbiamo collaboratori locali, alcuni dei quali sono addirittura la seconda o la terza generazione di nostri lavoratori. Trattandosi di un’attività molto specifica, formiamo noi direttamente i collaboratori partendo da requisiti di base per attività particolari, come il chimico analista, gli addetti alle caldaie, gli impiegati di settore amministrativo, le assistenti del nostro museo, tutte laureate in beni culturali.
Cosa ne pensa della transizione ecologica, crede che l’Italia sia in grado di poterla realizzare?
La transizione ecologica è una necessità assoluta per qualsiasi attività produttiva. Anche noi che anticamente già praticavamo l’economia circolare, stiamo attivando una serie di innovazioni in tale direzione, iniziando con l’installazione di pannelli fotovoltaici che soddisfano oggi buona parte del fabbisogno energetico, sostituendo le caldaie con altre a consumo ridotto, depurando le acque e utilizzando il residuo fibroso della lavorazione per mantenere umido il terreno della nostra azienda agricola. Per quanto riguarda le confezioni, utilizziamo materiale altamente riciclabile, come l’alluminio delle scatoline, o cartoni provenienti da riciclo.
Molte imprenditrici del settore legato all’ambiente e all’agroalimentare, sono donne. Questo dimostra che le donne sono più sensibili alla cura e alle problematiche legate all’ambiente?
Le donne, portatrici di vita, sono sicuramente molto sensibili ai problemi ambientali, sono più flessibili, hanno maggiori capacità di adattamento, e stabiliscono rapporti più empatici con i collaboratori.
Che età media hanno i vostri collaboratori?
Più o meno intorno ai quaranta anni.
Il mercato della liquirizia quanto è forte in Italia, e che riscontro ha all’estero?
In Italia abbiamo un nostro mercato tradizionale ben radicato, ed esportiamo all’estero oltre il 20 % dei nostri prodotti, in particolare nel nord Europa. Inoltre cerchiamo sempre di allargare la gamma dei prodotti a base di liquirizia perché la liquirizia pura è per appassionati, mentre aggiunta in dosi equilibrate per esempio a cioccolato, caramelle, biscotti, gelati, liquori, birra e altro, diventa ancora più apprezzabile.
In questo periodo di crisi non solo economica, ma anche climatica, che provoca dissesti e carenza d’acqua, cosa suggerirebbe ai governi in termini di soluzioni e proposte pratiche, da poter attuare nell’immediato?
Credo che la politica debba prendere decisioni importanti. Finora si è posta maggiore attenzione alle fonti energetiche, ma il problema dell’acqua soprattutto, con la siccità di questi tempi, può diventare drammatico. Un problema da non sottovalutare è quello degli acquedotti che risalgono spesso ad oltre un secolo, con impianti obsoleti che comportano perdite che riducono moltissimo i volumi di acqua da distribuire. In agricoltura bisogna fare attenzione agli sprechi, creando impianti con flussi calibrati e riciclo delle acque non utilizzate. Infine massima prudenza nello sviluppo edilizio per evitare i dissesti idrogeologici.
Esiste un museo Amarelli. Qual è l’utilità di un museo storico, dedicato alla liquirizia?
Un museo rappresenta un enorme valore aggiunto per ogni azienda che abbia una storia, e materiali e oggetti da esporre. La narrazione attraverso le immagini poi lascia un ricordo molto più vivo rispetto a un racconto scritto. In particolare i giovani sono favorevolmente colpiti da un museo non statico come quelli tradizionali, ma dinamico e che si adegua costantemente allo sviluppo ed evoluzione dell’azienda. Oltre al valore storico è un innegabile veicolo di marketing perché il visitatore fa un’esperienza immersiva che trasmette ad altri attraverso le proprie impressioni, e vale molto di più rispetto ad altri tipi di investimento. Per esempio porta turismo al territorio con flussi enormi, basta riflettere sul dato di circa 40 mila visitatori all’anno del nostro museo Giorgio Amarelli, che in Italia è secondo solo al museo delle Ferrari, per comprendere come tutta la zona, non raggiungibile in aereo o in treno, ma solo in auto, ne tragga un beneficio consistente tutto il territorio, anche per l’indotto, e per stimolare a visitare anche i luoghi limitrofi.