“Potrebbe oscurarsi il cielo su di noi, e la terra sprofondare, non m’importa se tu mi ami. Me ne frego di tutto il mondo…conquisterei la luna, ruberei la fortuna se tu me lo chiedessi…e se un giorno la vita mi separasse da te, se tu morissi lontano da me, non mi importerebbe se tu mi ami…perché anch’io morirei con te” (Hymne à l’amour, testo di Edith Piaf dedicato a Marcel Cerdan).
Di monelli di strada, senza casa né famiglia, che vivevano di espedienti e piccoli furti, di cantanti e saltimbanchi improvvisati, nella Parigi degli anni 30 ce n’erano tanti. Anche Edith Gassion era una di loro. La madre, Annette Jeanne Maillard, era una cantante girovaga, figlia di circensi. Anche il padre era un artista di strada, un saltimbanco, che in quel periodo era al fronte per la prima guerra mondiale. La fame e la guerra avevano spinto Annette ad affidare la piccola Edith ai nonni, per poter continuare ad esibirsi sulla strada nelle feste di paese. Sfortunatamente però i nonni della bimba erano due poco raccomandabili alcolisti, senza la minima idea delle più elementari condizioni di igiene in cui crescere un bambino. Così quando Louis Gassion tornò in licenza dalla guerra, si trovò davanti un esserino malnutrito, con il corpo ricoperto di croste e infezioni e la testa troppo grande. Non trovò di meglio che togliere la figlia ai nonni per affidarla alla sorella, “Maman Tine”, tenutaria di un bordello. Ben presto la piccola diventa la mascotte delle “signorine” della casa che la curano con affetto. Le infezioni, per la mancanza di igiene, le provocano una grave cheratite che le impedisce di vedere bene, così il parroco del quartiere non la vuole a scuola con gli altri bambini, dato che, non riuscendo a leggere, non può tenere il passo con gli altri. Edith, timida e debole, rimane così sempre in casa, e per non annoiarsi canta. Già da bimba ha una voce stupenda, potente e vibrante: pare un miracolo che provenga da un corpicino così minuto e provato. Tutti ne sono incantati: i vicini di casa aprono le finestre per sentirla cantare.
Finalmente la piccola guarisce dalla cheratite, e il padre, che nel frattempo è riuscito a mettere insieme un gruppetto di artisti per un circo, decide di portarla con sé. Ma il circo fallisce, e i due si ritrovano sulla strada. E sulla strada Edith riprende a cantare, l’unico modo che conosce per procurarsi di che vivere. A diciassette anni conosce la sorellastra Simone Berteaut, con cui avrebbe condiviso miseria e un piccolo appartamento. In quel periodo si innamora di un giovane fattorino, Louis Dupont, e ne rimane incinta. Nasce la figlia Marcelle. Dopo una breve felicità, la bambina si ammala di meningite e muore. È un periodo di miseria nera, e Edith non ha neppure i soldi necessari per garantire un funerale alla piccola. Con Simone cerca di raccogliere elemosine sulla strada, ma i soldi non bastano. Disperata, decide di prostituirsi per procurarsi il denaro necessario: un’esperienza che l’avrebbe segnata per tutta la vita. Dalla strada ai locali malfamati il passo è breve, ma è proprio in uno di questi in Rue Pigalle, che sarà notata dal suo primo Pigmalione: Louis Leplée, proprietario di un noto cabaret del centro. Louis rimane incantato dalla voce della piccola Edith, e la ribattezza “Piaf”: passerotto. Per lanciarla decide di organizzare una soirée nel suo locale, invitando i bei nomi della Parigi di allora. Erano presenti Maurice Chevalier, Maud Loti, Mistinguett, lo scrittore intellettuale Jean Cocteau. Edith va in scena con il solito vestitino nero da poco, cui era affezionata. Al centro della scena, illuminata da un occhio di bue, sembra ancora più piccola. Le mani bianche spiccano nel buio: si muovono come bianche farfalle mentre intona “Les momes de la cloche”. La voce prende il sopravvento sul corpo, lo sovrasta. “Una voce così potente – avrebbe affermato Jean Cocteau – che proviene da un corpo così piccolo, ha del sovrannaturale”. Con Cocteau la Piaf avrebbe in seguito condiviso l’amicizia più importante della sua vita: lo scrittore e drammaturgo avrebbe scritto per lei “La voce umana”, un monologo che in Italia sarebbe stato interpretato da Anna Magnani, diretta da Roberto Rossellini, l’unica attrice secondo Cocteau di reggere il confronto con la carismatica Piaf.
Papà Leplée, come lo chiamava Edith, era però coinvolto in loschi affari di droga: spaccio di morfina e cocaina. Un giorno fu assassinato misteriosamente. Edith, intervistata da giornalisti e polizia, affermò di essere completamente all’oscuro della vita privata del suo Pigmalione, ma la stampa l’avrebbe perseguitata per mesi. Molti amici in quel periodo la abbandonano, il lavoro subisce un duro colpo, i locali hanno paura a scritturarla. Per fortuna avrebbe incontrato un altro estimatore che l’avrebbe protetta e rilanciata: Raymond Asso. Edith ha solo vent’anni, Asso più di quaranta. È un uomo colto e raffinato: le insegna le buone maniere, come vestirsi e pettinarsi per valorizzarsi, come comportarsi nella vita pubblica e nei ricevimenti importanti. Ha del vero affetto per lei: le impone di non fumare, di curare di più la salute, e di non frequentare più Simone, ritenuta da lui la causa dei vizi e dei problemi di Edith. Infine la lancia come una nuova stella della canzone francese. Ma la guerra avrebbe allontanato i due. La guerra, da cui Asso non avrebbe fatto ritorno. Il successo di Edith è comunque in continua ascesa. Inviti, concerti, tournée, e nuovi amori: con il giornalista Henri Contet, con Yves Montand, con Charles Aznavour.
E viaggi, tanti: in Svizzera, Grecia, Italia, Egitto. E America. È a New York che conosce quello che sarebbe stato il più grande amore della sua vita: il pugile Marcel Cerdan. Marcel, a dispetto dell’aspetto massiccio da peso massimo, è un uomo dolce, mite e gentile. È delicato e generoso: molto diverso dagli uomini che Edith aveva conosciuto sino ad allora, duri, ambiziosi, egocentrici, che spesso avevano cercato di sfruttare il suo successo. Il 22 Giugno del 1949 Marcel Cerdan perde il titolo mondiale con Jack La Motta. Edith, che è in Europa per lavoro, lo prega di raggiungerla subito: vuole sposarlo. Marcel è felice, parte con il primo aereo che trova. L’aereo però precipita, Edith lo aspetterà invano. Il dolore prostra talmente la Piaf, che per più di un anno non vorrà più esibirsi in pubblico. Dopo il silenzio, nel 1951 riprende a cantare, con una canzone scritta da lei con La Monnot, e dedicata a Marcel Cerdan: “Hymne à l’amour”. È un trionfo.
Nel 1952 accetta di sposare il compositore Jacques Phillis, ma rimane presto vittima di un grave incidente stradale che le comporta fratture che l’avrebbero tormentata con dolori atroci. In quel periodo inizia l’uso della morfina, da cui non si sarebbe più liberata. La morfina diventa per lei un rimedio imprescindibile, sia per il dolore fisico che per la sofferenza dell’anima. Il marito cerca di farla disintossicare, ma lei di nascosto si fa procurare il farmaco da Simone, l’amica d’infanzia che ha ripreso a frequentare. Nel 1956 divorzia dal marito, che considera troppo assillante. Conosce Georges Moustaki che scriverà per lei “Milord”. Ha un altro incidente stradale, deve subire altre operazioni, e per questo ricade nella droga. Moustaki, insofferente e incapace di starle vicino, la lascia. Dolore, abbandono, depressione: Edith si lascia andare accelerando la sua fine. Un angelo appare nella sua vita e le offre un’altra chance: è il compositore Charles Dumont che le propone di interpretare “Non, je ne regrette rien”. Anche questo è un trionfo, un brano cucito su misura per lei, che ne rappresenta l’anima. La canzone, autobiografica, fu dedicata dalla Piaf alla Legione Straniera, che ne fece il proprio inno. Tuttavia anche questo ennesimo successo non aiuta Edith ad uscire da uno stato di profonda tristezza. Anche perché il suo medico curante, preoccupato per la sua salute troppo minata, le aveva ordinato nel frattempo di non cantare più in pubblico e di evitare lo stress dei viaggi per le tournée e i concerti. Ma cantare era la vita stessa per Edith, quella sua voce rappresentava la sua anima: immensa e straripante, che un corpo così minuto non riusciva a contenere. Per reagire cerca di frequentare gente, invita nella sua casa di Parigi ogni sorta di persone, addetti ai lavori, artisti, semplici ammiratori. Succede a volte che qualcuno ne approfitta per derubarla. Lei se ne accorge, ma fa finta di niente. Svuotata, senza voglia di vivere, sembra prossima alla fine, quando incontra un giovane ammiratore, Théo Lamboukas, un parrucchiere greco presentatole da un amico. Théo da anni è segretamente innamorato di lei, e le chiede subito di sposarlo. Vuole prendersi cura di lei, anche se ci sono vent’anni di differenza. All’inizio Edith è titubante, proprio per la differenza d’età, ma poi si lascia convincere. Il pubblico parigino è ostile all’unione tra i due, teme in un ennesimo rapporto di sfruttamento di immagine da parte del partner, ma ben presto si ricrederà. Théo è sempre presente, attento, premuroso in ogni occasione. Tratta Edith come fosse una gemma preziosa da custodire. I due si esibiscono anche all’Opera in un duetto dove proclamano il loro amore: “A quoi ca sert l’amour”. I due si sposano con rito ortodosso nel 1962. Subito dopo però Edith viene ricoverata d’urgenza per problemi al fegato, intossicato dalla morfina. In clinica, Théo non l’abbandona mai. Un giorno, in cui il giovane si concede una pausa, accade la tragedia: un ammiratore va a trovare Edith e le porta delle omelette di cui lei è ghiotta. Ne mangia, e sopravviene il coma epatico. È la fine. L’annuncio della morte, nell’ottobre del 1963, provoca un’enorme ondata d’emozione in Francia. E ancora una volta un paradossale scherzo del destino avvicina la Piaf a Jean Cocteau: il drammaturgo muore poco dopo aver saputo della scomparsa dell’amica. Quarantamila persone ai funerali di Edith, ma niente preghiere ufficiali: la chiesa cattolica lo aveva impedito, dichiarando che l’artista era vissuta in stato di pubblico peccato. Marlene Dietrich, Charles Aznavour, Yves Montand, e tanti altri presenti per l’ultimo saluto. “È stato un vero trionfo, come avrebbe voluto lei”, avrebbero commentato i giornali.