Anche nel Mediterraneo, come in altri mari e negli Oceani, la plastica è causa ogni giorno della morte di pesci e tartarughe marine, che la ingoiano scambiandola per cibo e ne rimangono spesso soffocati.
Il dramma assume dimensioni ancora più gravi se si pensa che la plastica non si degrada mai completamente – per smaltirla del tutto ci vorrebbero almeno 450 anni – ma si scompone in particelle dalle dimensioni anche di pochi millimetri, che penetrano subdolamente negli organismi viventi attraverso l’acqua, producendo seri danni biologici all’ambiente e contaminando la catena alimentare di animali e umani.
Un fenomeno sempre più diffuso è quello del sorgere di agglomerati di rifiuti che si formano negli Oceani, a causa delle correnti che si concentrano in determinati punti, agglomerati che a volte assumono dimensioni tali da determinare la formazione di veri e propri isolotti di plastica, visibili a occhio nudo. Un fenomeno simile è stato individuato recentemente anche nel Mediterraneo, precisamente davanti all’isola di Capraia.
Sebbene non si tratti di un agglomerato solido e visibile, una consistente concentrazione di plastiche è stata scoperta nel corso dell’operazione nata dal progetto “Plastic Busters”, ideato e realizzato dai ricercatori dell’Università di Siena, con il sostegno del Ministero dell’Ambiente, in collaborazione con l’Ispra, l’Istituto di Ricerche Marine Ifremer, la Regione Toscana e il Cnr.
Le ecotossitologhe Letizia Marsili e Cristina Fossi del laboratorio Biomakers dell’Università di Siena, hanno infatti individuato un luogo di accumulo di plastiche al largo di Capraia, nell’arcipelago toscano, isola nota per la selvaggia bellezza natuale e paradiso dei sub.
Il dramma è che questi luoghi di accumulo di rifiuti determinati dalle correnti, coincidono con quelli di aggregazione del plancton, di cui si nutre prevalentemente la fauna marina.
Così i grandi pesci, i cetacei come le balenottere, gli squali e i tonni, accorrendo per cibarsi dei gamberetti planctonici, finiscono con l’ingurgitare chili di microplastiche. “Abbiamo verificato – ha dichiarato in proposito Cristina Fossi – che le balene, soprattutto quelle mediterranee, presentano alte concentrazioni di inquinanti nell’organismo, soprattutto sostanze chimiche che si utilizzano per rendere morbida la plastica, che possono danneggiare anche il sistema endocrino umano, predisponendo a tumori e compromettendo la fertilità”.
“Da non sottovalutare inoltre il fatto – ha sottolineato la collega Letizia Marsili –che le microplastiche inglobano anche virus e batteri, fungendo da trasportatori marini di possibili infezioni”. Un esempio dei rischi alimentari per l’uomo è quello costituito dal consumo delle comuni cozze: organismi semplici che assorbono facilmente le microplastiche.
Per il momento il progetto “Plastic Busters” riguarda solo l’area marina del “Santuario Pelagos”, un’area di 87.500 chilometri quadrati sotto tutela ambientale grazie a un accordo tra Italia, Francia, Principato di Monaco, per proteggere i mammiferi marini che la frequentano e l’ hanno scelta come luogo di riproduzione.
I ricercatori dell’Università di Siena, che sono stati i primi al mondo a studiare l’impatto delle particelle di plastica nei cetacei, sperano di allargare al più presto questa iniziativa, nata per la difesa del mare e della salute umana, coinvolgendo tutti i Paesi dell’area mediterranea.
Per chi volesse approfondire l’argomento:
Plastic Busters
Università di Siena
Ministero dell’Ambiente
Ispra
http://www.isprambiente.gov.it/it
Istituto di Ricerche Marine Ifremer
Cnr