Luigi Vitiello è nato a Napoli nel 1950. È laureato in Medicina, si è formato come psicoterapeuta presso la Scuola Europea di Psicoterapia Funzionale e poi seguendo un training Gestaltico. È iscritto all’Albo degli Psicoterapeuti dell’Ordine dei Medici di Napoli. Ha studiato Medicina Tibetana con il Professor Namkhai Norbu, con il Dottor Pasang Yonten e il Professor Tubten Phuntsog dell’Università delle Minoranze di Pechino. È autore di vari articoli e conferenze sulla Medicina Tibetana e sul tema della morte nella tradizione Buddhista. Ha curato l’edizione italiana del libro di Namkhai Norbu “Nascere e vivere” (Ed. Shang-Shung 1992) e del libro “La Grande Guarigione”, di Namkhai Norbu e Trogawa Sampel. Ha ricoperto la carica di responsabile della sezione di Medicina Tibetana dell’Istituto Internazionale di Studi Tibetani Shang-Shung dalla sua fondazione (1990) e ne è stato direttore dal 1998 al 2001. È istruttore Yantra Yoga e insegnante di meditazione. Vive e lavora a Napoli e Arcidosso (Grosseto) e tiene conferenze e corsi su questi temi in varie città italiane ed europee.
In questo drammatico periodo legato alla pandemia abbiamo sentito, come un mantra, ripetere da più parti “andrà tutto bene”. Crede che questo possa servire a incoraggiare le persone?
La situazione che abbiamo vissuto nei mesi passati, e stiamo ancora vivendo, è qualcosa di completamente nuovo per noi. L’ultimo episodio simile accadeva esattamente cent’anni fa, con la pandemia di influenza ‘spagnola’, ma erano tempi diversi: l’economia non era così globalizzata e non si era ancora sviluppata la convinzione di avere diritto a tutto, subito e sempre. Non è difficile capire come questa nuova esperienza sia stato un brusco risveglio da queste illusioni. E’ stato necessario prendere provvedimenti impopolari. Il modo migliore perché siano rispettati è quello di indurre le persone a sceglierli “liberamente” e per ottenerlo si fa leva sulla paura: l’ormai verificato sistema di offrire sicurezza in cambio di libertà. Quindi poi bisogna anche rassicurare. Ripetere ‘andrà tutto bene’ è una frase semplice, adatta alla superficialità dei nostri tempi. Ricorda infatti quello che un genitore può dire a un bambino che si trova in una situazione difficile e non ha gli strumenti per capirne la portata: “Non preoccuparti: è vero, ora ci siamo un po’ spaventati, dobbiamo stare molto attenti, ma… andrà tutto bene”. In realtà non possiamo sapere come andrà.
Un altro mantra è stato, ed è tuttora: “tornerà tutto come prima”. Trova che sia un messaggio rassicurante e positivo?
No, è falso, assurdo e anche pericoloso. Intanto non sappiamo se e quando questo virus scomparirà. Potrebbe anche farlo, come accadde con la ‘spagnola’ che, dopo una serie di ondate successive, scomparve spontaneamente, ma ora non possiamo saperlo. Forse dovremmo imparare a conviverci, come facciamo da sempre con tante altre malattie infettive. In ogni caso un evento di questa portata non può passare senza lasciare tracce significative. Winston Churchill diceva “Mai sprecare una buona crisi”, ed è una considerazione molto saggia. Quando le cose sono in una fase di stasi è difficile modificarle, ma quando entrano in crisi significa che c’è qualcosa da cambiare e bisogna capirlo presto, perché il momento lo richiede, è favorevole al mutamento e significa anche che “come prima” non va più bene.
Durante il periodo di clausura forzata le persone hanno avuto reazioni diverse. Il Covid può essere considerato, paradossalmente, un pretesto per un’utile riflessione?
Ci sono alcune importanti lezioni che possiamo ricevere da quanto sta accadendo: con i miei pazienti le chiamo “gli insegnamenti del Covid” e sono coerenti con quanto ho appreso dalla filosofia Buddhista e dalla mia esperienza di medico e psicoterapeuta. Il primo insegnamento è un potente richiamo all’impermanenza di tutte le cose: tutto cambia continuamente; quello che andava bene ieri, oggi non vale più perché le circostanze sono diverse. Il secondo è sulla rapidità con cui le situazioni possono cambiare. È illusorio rifugiarsi nell’idea che i mutamenti saranno lenti e progressivi, che ci sarà sempre tempo per aggiustare le cose e per evitare il peggio. Qualche volta è possibile, altre no, specialmente se non sappiamo cogliere i segnali di cambiamento. Il terzo è la rivalutazione dei piccoli piaceri che ormai non sembravano neanche avere un valore: andare a mangiare una pizza, incontrare qualche amico, uscire di casa senza un motivo o anche andare dal parrucchiere… Come ci siamo sentiti quando tutto questo è diventato impossibile?Altro importante punto è stato porre in risalto la condizione d’interdipendenza che ci connette: il Covid e le misure per combatterlo hanno mostrato chiaramente come tutto dipenda da qualcos’altro e nulla esiste di per sé. Siamo tutti parte di un sistema di relazioni, sempre più complesso e intricato, per cui un mutamento in un qualunque punto del processo produce effetti su tutto il sistema.
Quanto può essere difficile ripensare/rinunciare a consolidate abitudini, e quanto il recupero di una dimensione spirituale può aiutarci in questo?
Il benessere tende a renderci pigri, sono le difficoltà che ci spingono al cambiamento e spesso anche alla ricerca di una dimensione più profonda. Nell’insegnamento Buddhista si parla di tre aspetti che regolano la nostra vita: il modo di vedere, il comportamento e la pratica meditativa. Il primo condiziona il secondo: se ho aspettative illimitate e irreali, la mia vita sarà piena di frustrazioni e sofferenza perché cercherò il benessere e la felicità in direzioni che non possono darli; se divento consapevole del mutamento delle cose e della loro relatività, potrò godere di ogni opportunità senza creare attaccamento e avrò la capacità di adeguarmi alle circostanze. La pratica meditativa sviluppa tutto questo. La meditazione non è una fuga dalla realtà, ma un modo per entrarvi in maniera più piena e consapevole.
“Il cambiamento, anche se per il meglio, genera sempre un dolore”, affermava Pasolini. Cosa ne pensa?
Mi fa venire in mente la parola nostalgia, il “dolore del (non) ritorno”, il rimpianto di ciò che è stato e non è più. Credo che la maggior parte degli esseri umani tenda alla stabilità: se abbiamo lottato duramente per trovare un equilibrio nelle difficoltà, può risultare doloroso doverlo cambiare nuovamente. Inoltre c’è una certa soddisfazione nell’aver avuto la capacità di superare situazioni avverse, nel dover aguzzare l’ingegno per cavarsela meglio. Le situazioni facili sono più godibili, ma meno stimolanti…
Quello che abbiamo vissuto, potrà essere di utilità nel malaugurato caso di un riacutizzarsi dell’epidemia?
Voglio sperare che l’esperienza non venga sprecata, che non ci sia fretta di dimenticare…
Viviamo in un mondo centrato sul produrre, sul fare e sull’avere. Ora stiamo assistendo al paradosso di un piccolissimo organismo, invisibile perfino al microscopio ottico, che ci sta mostrando tutta la nostra fragilità e quella del sistema che abbiamo costruito. Noi umani abbiamo certamente risorse maggiori, ma dobbiamo cogliere quest’occasione per interrogarci profondamente sulla direzione che vogliamo dare al nostro modo di stare in questo mondo.